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mercoledì 30 dicembre 2020

Bestiariopolitico/2020


 

Ecco a voi un riassunto del bestiario politico 2020 del ragazzo interdetto. Di tante altre bestialità ci sarebbe stato da raccontare, ma @ilragazzointerdetto è troppo lento per stare dietro a tanta fauna. Certo è che il 2021 offrirà non meno spunti animaleschi di quest’annata funesta che si va chiudendo. Quindi, a presto con nuove bestie!

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La mia cassetta degli attrezzi:

sabato 19 dicembre 2020

Cervelli e cervelletti


 

Alcuni, nel paese di Mandalore, dicevano che Gennaro detto Genny era pigro di testa, che era senza cervello o che l’aveva perso. Altri, quando incrociavano Gennaro detto Genny, non dicevano proprio niente, perché quel ragazzone, cervello o no, aveva mani grosse e menava forte. Molti, se vedevano Gennaro detto Genny andare a spasso, che sbuffava come un toro, con le tasche grosse per le mani infilate in fondo a pugno, smettevano di confabulare e, restando seduti ai tavolini del caffè, come vitelli che hanno smarrito la vacca, aspettavano di trovare il suo sguardo non tanto furbo, per poi abbassare gli occhi in un inchino. Allora Gennaro detto Genny si acquietava; loro sapevano quel che gli si doveva, lui sapeva quel che gli era dovuto, e, senza rompersi la testa sull’origine di questi debiti e crediti, continuava compiaciuto la sua marcia. A dispetto delle voci, Gennaro il cervello ce l’aveva sempre avuto e non l’aveva perso; però, ad ogni buon conto, non ci aveva mai fatto conoscenza. Il cervello di Gennaro era cresciuto proprio lì dove doveva, come gli altri cervelli, ma non si era collegato a tutto il resto. Sapete no? terminazioni nervose e quelle altre cose che vi elencherebbero i sapientoni. A Gennaro era bastato il cervelletto e né Gennaro né quest’ultimo si erano occupati di dare una scossa a quell’altro organo che se n’era rimasto candido. Gennaro e il cervelletto si erano di consueto consultati brevemente sul da farsi e, generalmente, non avevano faticato troppo a trovare soluzioni più che soddisfacenti. Passa una bella donna? «Fischia!», quell’uomo ci guarda male? «Dagli contro!», ancora una donna prorompente? «Fischia peggio di prima e gongola!», e via così. Di tanto in tanto il cervelletto di Gennaro detto Genny si era provato in prodezze da cervello di tutto punto e aveva escogitato scaltrezze di notevole livello, non senza della vanagloria, del tipo: «perché pagare una multa se puoi stracciarla?», e se la rimandano? «Beh, la stracci di nuovo, no? e ancora e ancora finché loro non si stancano e tu la spunti!». Grande! «grande!», si dicevano a vicenda e, se madre natura gliel’avesse permesso, si sarebbero dati il cinque o dei camerateschi buffetti sulle spalle. Per questa comunità d’intenzioni e per questa sveltezza di risoluzioni, Gennaro detto Genny e il suo cervelletto erano una così bella squadra da poterli insieme definire squadristi. Successe però, durante il trentunesimo anno di vita di Gennaro detto Genny, che lo prese un forte capogiro, mentre andava a spasso nella piazza di Mandalore un martedì, e fu costretto a sedersi su una seggiola del caffè, che i gentiluomini untuosi del paese non tardarono a far scivolare sotto il suo intimidatorio deretano. I paesani erano così turbati e impensieriti dalla sua ingombrante vicinanza, a cui non erano usi, che gareggiarono tra loro a travisarsi premurosi e soffocare il cruccio. Il ragazzone stette un po’ con la testa tra le mani e con i gomiti sul piano mangiato di ruggine del tavolino di metallo smaltato bianco, al centro del piccolo crocchio inquieto di folla che gli si era fatto intorno, come succede con i capannelli del gioco delle tre carte, si strofinò forte gli occhi, quasi intendesse nasconderli nel capo, e prese a biascicare con una voce nuova e strana, non meno impressionato degli altri intorno. Era tardo pomeriggio e una luce inconsueta teneva in tiro la giornata, ma nessun paesano di Mandalore tra i presenti se ne fece accorto, tanto tutti erano fascinati dall’incanto di quel corpaccione esausto e spaurito che sciorinava numeri e formule e misure e raffronti dimensionali su tutto quello che aveva intorno, e impegnati a tenersi alle giacchette, come se potessero scivolarne fuori per sbadataggine. Avesse preso a muggire, al ritmo dei rintocchi dell’orologio della piazza, Gennaro non avrebbe generato più clamore. Ormai vi sarà chiaro, il cervello di Gennaro detto Genny, per ragioni che non ci sono note, si era attivato tutto ad un tratto ed era così nuovo e così in buono stato che faceva le scarpe a tutti quegli altri cervelli intorno e se ne vantava e ardeva di adolescente esuberanza per il desiderio che quegli altri se ne avvedessero. Il cervelletto, timoroso di una sentenza sul suo operato da parte di quel figliol prodigo tornato a rivendicare il suo seggio, si era ritirato e rinsecchito; se ne stava in un canto speranzoso di passare inosservato e ottenne quel che desiderava. Lo stupore montò in fretta, traghettò di bocca in bocca, e per giorni e giorni fu argomento di tendenza nel paese, trattato con lo stesso riserbo di casi ritenuti somiglianti, accaduti a Lourdes e a Medjugorje in altri tempi, poi scemò altrettanto rapido. La notizia era golosa ma speziata di un ingrediente strambo, che fece avanzare in breve la noia e il disinteresse. Difatti, quel cervello così a lungo conservato, così atletico e intonso e baldanzoso e brillante, per il suo lungo letargo, non aveva imparato niente e niente sapeva della vita e di ciò che allieta gli uomini. Sorprendentemente, tutto ciò che comprendeva era la fredda scomposizione e ricomposizione del visibile. Fu così che a Gennaro detto Genny, per via del suo grazioso nuovo commilitone, toccò il destino di umanizzarsi e spersonalizzarsi ad un tempo e, con quella furia nella testa e senza i ruspanti e svelti consigli del cervelletto, che se ne restava latitante, di sciupare gran parte della sua notoria grinta; si fece timoroso e indeciso, schivo, per molti versi tediosamente docile. Bastò contare poche lune che Gennaro non fu più detto Genny e la gente del paese gli occhi, quando incontravano i suoi, non li inchinava più. Molti, quando vedevano Gennaro pascolare per la piazza, lo invitavano a sedersi al tavolino del caffè e si burlavano di lui bonariamente. Gennaro non aveva dimenticato come si fa a menare per bene e li avrebbe pure strapazzati, ma non lo faceva, perché il cervello, che non gradiva essere distratto dal suo calcolare, minacciava di sfinirlo con ragionamenti ancora più fitti. Poi i paesani si seccavano di sentirlo mormorare numeri e formule e misure e raffronti dimensionali e lo lasciavano a borbottare le sue cose, con i gomiti sulle ginocchia e la schiena curva, dando vita a qualche disputa sulle partite del calcio nazionale o sulle competizioni di bocce del Circolo Sociale Anziani di Mandalore, senza che la varietà dell’argomento pesasse sull’accanimento. Altri rammentavano di tanto in tanto la presenza di Gennaro e si davano un istante a considerarlo, come a dire: «qualche tempo fa avresti detto la tua Gennaro caro, con voce grossa, e forse avresti ribaltato pure il tavolo» e in quei loro sguardi c’era meno sollievo di quel che potreste credere e, forse, più nostalgia; ma di soggezione ce n’era ormai punto, come dinanzi ad un cane che non smette di ringhiare ma ha le zampe rotte. Alcuni, a volte, si sottraevano alle seriose contese su palloni e bocce e belle signore ritenute generose, per fare a Gennaro una domanda di circostanza, di quelle che si fanno ai bambini quando vengono introdotti, e trarlo un istante dai suoi vaneggi. Se il tempo era chiaro e bello com’era quel martedì del gran risveglio, ordinavano per lui un amaro, attendevano che lo ingurgitasse tutto, gli battevano fraternamente sulla schiena e, mentre quello riprendeva a calcolargli i capelli sulla testa, scomponendo le geometrie che stanno tra un orecchio e l’altro, o provava a raddrizzargli il cappello sulla giusta direttrice, ad uno ad uno, in rapida successione, si accomiatavano, lasciandolo seduto solo. Allora Gennaro, che non poteva smettere, parlava e parlava fino ad assopirsi sullo smalto del tavolino, che gli era stato unica clemente controparte, e si mescolava con la ruggine. L’ultimo cameriere di turno al caffè, chiusi gli ombrelloni e serrato l'ingresso, a volte lo scuoteva perché se ne tornasse a casa e altre ancora non si avvedeva di lui e lo lasciava lì accasciato, al suo sonno smanioso e senza sogni.


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